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L\'industria del caffè è grave (Difficult coffee industry)

- L\'Espresso - Piece of news on Lavazza and their efforts to compete with worldwide giants like Sara Lee, Kraft and Nespresso. The Italian coffee roaster


- L\'Espresso -

Piece of news on Lavazza and their efforts to compete with worldwide giants like Sara Lee, Kraft and Nespresso. The Italian coffee roaster has just entered the US market and opens three hundred shops in India. Interview to Giuseppe Lavazza.

La piemontese Lavazza cresce fuori dai mercati tradizionali, sbarca in forze negli Usa e apre trecento coffee-shop in India. Preparando la sfida ai big

In Italia sono loro i colossi, i leader da sempre. Ma i piemontesissimi Lavazza, re del caffè tricolore, anche dopo la prima acquisizione di peso - il 7 per cento dell'americana Green Mountain - messa a segno un mese fa, nell'arena internazionale devono fare i conti con dei veri e propri giganti. Il numero uno mondiale è la Nestlè: con il solo caffè solubile, il celebre Nescafé, la multinazionale svizzera ha fatturato l'anno scorso oltre 10,5 miliardi di franchi, pari a 8,1 miliardi di euro. Sette volte e mezzo il giro d'affari della Lavazza, di gran lunga il primo operatore italiano. Altri mondi. A Torino la sfida a simili pezzi da novanta resta un affare di famiglia. Da combattere con le proprie forze, senza aprirsi a capitali esterni: "Noi alla Borsa proprio non ci pensiamo: tutte le acquisizioni ce le siamo autofinanziate e non abbiamo debiti, anzi c'è ancora parecchia liquidità in cassa", dice Giuseppe Lavazza, vicepresidente e direttore marketing. Nel consiglio di amministrazione sono in cinque a portare il cognome del fondatore Luigi, che aprì la prima torrefazione in pieno centro città nel 1895, e di suo nipote Emilio - deceduto nel febbraio scorso - che l'ha guidata per trent'anni, avviando quell'espansione all'estero che ha portato i mercati stranieri a pesare per il 40 per cento del fatturato. Sono Lavazza il presidente Alberto, padre di Marco e Antonella, rispettivamente responsabile sviluppo e project manager del business coffe-shop. Questi ultimi, poi, sono cugini dello stesso Giuseppe e della sorella Francesca, direttore dell'immagine aziendale. I manager esterni ci sono, come l'amministratore delegato Gaetano Mele e il direttore corporate Alessandro Lorenzi, ma le redini restano in mano ai Lavazza. Che non amano i riflettori. "Qualcuno puà pensare che siamo un po' troppo all'antica, perà io credo che avere tanti esponenti della famiglia in azienda sia anche una garanzia di qualità: partecipiamo tutti al rito degli assaggi e delle degustazioni, e ci è capitato di intervenire su certi prodotti pur sapendo che ci sarebbero costati di più", racconta Giuseppe, che è nato nel 1965, è entrato in azienda nel 1993 e fa un po' da portavoce per il resto dei parenti. Difficile immaginare una scena del genere a Vevey, quartier generale della Nestlè. O a Northfield, nell'Illinois, dove ha sede un altro concorrente dei Lavazza, la Kraft, un colosso che solo nel caffè conta ricavi per 6 miliardi di dollari (in Italia è presente con Hag e Splendid) e ha come primo azionista la Berkshire Hathaway di Warren Buffett, il finanziere soprannominato l'oracolo di Omaha. E dimensioni planetarie hanno anche i numeri tre e quattro del caffè mondiale, le americane Starbucks - la catena di coffe-shop più famosa, con un giro d'affari legato al caffè di 5 miliardi - e Sara Lee , che possiede i brand Senseo e Douwe Egberts e fattura oltre 3 miliardi. Tutte quotate in Borsa, senza un padrone e con un azionariato costituito da grandi fondi. Pur muovendosi con understatement piemontese, negli ultimi anni i Lavazza hanno perà pigiato sul pedale dello shopping. Hanno comprato catene di negozi in India e in Bulgaria, e ora i punti vendita del gruppo (con le insegne Cafè di Roma, Barista e Espression) sono 350 al mondo. Controllano aziende attive nelle macchinette da ufficio in Argentina e Brasile. In primavera si sono accaparrati l'italiana Ercom, quella delle cioccolate Eraclea. E con l'ultimo colpo da 190 milioni di euro, pur indirettamente hanno infilato anche un piede in Borsa, visto che la Green Mountain (azienda da 800 milioni di dollari di ricavi) è quotata al Nasdaq. Dall'attuale 7 per cento, se vorranno, potranno salire fino al 15 per cento del capitale. E grazie alla rete commerciale della società del Vermont, forte nel mercato delle cialde per il caffè lungo (Lavazza opera in quello tradizionale), nei piani di Giuseppe gli Stati Uniti dovrebbero diventare il principale mercato export nel giro di 4-5 anni. Ora gli Usa valgono 25,2 milioni di euro ma, se tutto filerà, andranno sopra i 100 milioni, scavalcando Francia (91,3 milioni) e Germania (73,7). Fieno in cascina per crescere, a Torino, ne hanno ancora: la liquidità supera i 300 milioni. Il gruppo ha 4 mila dipendenti, quattro stabilimenti in Italia e due piccoli impianti in Brasile e India. In questi due paesi, perà, sta già realizzando due grossi impianti. Così, nei prossimi anni, il fatturato oltre confine supererà quello domestico. Perché in famiglia pensano che il caffè italiano sia destinato a diventare di moda nei Paesi emergenti, anche se consumato in modo differente dalla moka, che ancora rappresenta i tre quarti dei ricavi. In India, dove è programmata l'apertura di altri 300 coffe-shop nei prossimi tre anni, i giovani trendy ad esempio bevono cappuccino. Lavazza, poi, produce 2,2 miliardi di cialde all'anno e conta su un "parco macchine" di 2,2 milioni di pezzi. "Il cosiddetto "porzionato" ha tassi di crescita interessanti e un valore aggiunto superiore", sottolinea Giuseppe, interrompendosi per gustarsi uno dei suoi 6-7 caffè quotidiani. Particolare non irrilevante: si guadagna anche con le macchine (costruite da terzi), non solo con le cialde. A proposito di macchine: niente berlinoni di rappresentanza, alla Lavazza. Dice il torinese Giuseppe: "Giro con una Audi A6 station-wagon. Tengo famiglia". La parola più usata, in Lavazza. Dopo "caffè".